Critica

Una pittura ferma e pacata (Fortunato Bellonzi)

 

I dipinti di Leonardo Pizzanelli sorprendono per il concetto di arte che ci presentano. L’artista, volontariamente, riprende la tecnica tradizionale, l’antico ideale, non di novità, ma di perfezione, per approfondirlo ed inserirlo nel mondo e nella vita contemporanea. Inoltre è un pittore che, per istinto, ricerca risolutamente la grazia, la dolcezza, l’intima espressione del carattere morale. Tali esperienze, dopo Ingres, Prudhon e i loro successori, erano state abbandonate; ma adesso che tanti “tentativi” sono caduti e che hanno luogo ritorni inattesi, ci si può domandare se lo sforzo onesto e sincero di un Pizzanelli non possa apparire come il richiamo atteso per ritrovare l’espressione di un’arte che troppo presto era stata considerata scaduta.

Preoccupato fin dall’inizio, di possedere una valida conoscenza della tecnica, il Pizzanelli ha studiato i maestri veneti attardandosi sulla solidità dei colori e la consistenza della materia pittorica. Ricercando la sobrietà della tavolozza egli dà importanza ai valori della luce ed alla raffinatezza del modellato.

Ha cercato di assimilare la maniera dei grandi maestri che più ammirava: Rembrand, Tiziano, Degas, Renoir. Come i pittori di un tempo, non teme di far ritrovare la sua ammirazione nei suoi dipinti. Tali esperienze, spesso così trascurate ai nostri giorni, sono il tirocinio necessario attraverso il quale un artista che aspira alla grande pittura, passa per elevarsi ad una creazione personale che non sia solo un facile casuale “gioco del pennello”.

Pittore solitario, il Pizzanelli, lavora assai lentamente, ha il coraggio di abbandonare gli abbozzi che giudica meno felici, e moltiplica gli studi diretti che gli permettono, progressivamente, di realizzare delle opere sempre più complete e personali.

Per quanto riguarda l’evoluzione della sua arte, si può notare come egli sia partito da una pittura più eseguita, più attenta, ricca di particolari rigorosi sottolineati da contrasti di tono a volte scuro. Durante il lungo soggiorno a Parigi, per la conoscenza diretta degli impressionisti, il Pizzanelli, ammorbidendo il disegno, schiarendo i suoi toni, si spoglia di ciò che poteva esserci di duro o di pesante nella sua arte per raggiungere una materia leggera, vibrante, fluida, ricca di sfumature di tono, sotto cui la struttura e il disegno restano ugualmente solidi. Spesso nei suoi dipinti si trova quella calma luminosa ed equilibrata, ariosa e larga che è l’ideale dei veri pittori.

Pittura intima fatta per soddisfare esigenze personali, fuori dal tempo inteso come moda, ma pienamente moderna come ogni pittura valida, per i valori eterni che contiene, la pittura di Pizzanelli può essere oggetto di incomprensione per i preconcetti che limitano il giudizio della “nuova accademia”.

C’è da augurarsi che l’artista, cosciente della validità del suo mondo, dotato com’è di un autentico talento capaci di sormontare gli ostacoli più difficili, continui con coraggio e perseveranza la strada che ha scelto, quella della grande pittura.

Raymond Charmet

Presentazione in catalogo della personale alla Galleria Jean de Ruaz, Parigi, 1958

 

 

Nella produzione di Pizzanelli, che espone alla “Saletta Gonnelli”, notiamo una ricerca pittorica, resa evidente da una forma espressiva legata alla pittura tradizionale. Pizzanelli è riuscito a impostare il suo discorso con una concreta struttura pittorica e una tavolozza pulita e soffusa di poesia. Inoltre Pizzanelli ricerca per istinto la valorizzazione delle forme tradizionali per affermare certi valori davanti al dilagare di certe espressioni d’arte assurde e inspiegabili. Forse non a torto Krusc, esule nella sua dacia, diceva che “se metti la coda di un mulo in un barattolo di vernice, ottiene risultati migliori di questa cosiddetta  pittura moderna”. Pizzanelli è un pittore sincero che si esprime con un figurativo non fine a se stesso, ma con una intensità di ricerca positiva.

Angelo Spinillo

(Gallerie d’arte; in “Avvenire”, Firenze, 31 dic. 1972)

 

 

In Leonardo Pizzanelli (Galleria Il Navicello di Pisa) una certa tradizione pittorica di matrice ottocentesca (nel caso specifico la ritrattistica) celebra ulteriori fasti, se così si può dire: Diciamo che; a parte la morbidezza del colore spesso suggestivo, il soggetto infondo accampa un predominio esclusivo e che quello che si prova di fronte alle opere di Pizzanelli è, nel positivo come nel negativo, legato alla sua indubbia capacità tecnica, alla maestria dell’uso del colore, al segno sicuro. Non direi che si possa andare oltre e cercare particolari contenuti o particolari visioni del mondo.

Luigi Bernardi

(Mostre in Toscana, in “Il Telegrafo”, Livorno 4 maggio 1973)

 

 

 

Leonardo Pizzanelli: una velatura di sogno

Leonardo Pizzanelli svolge il proprio spazio pittorico seguendo con aderenza e per un’aspirazione certo connaturale la tematica del “ritratto” , e mi piace annotare che nell’intenzione dell’artista toscano tale “genere” di pittura implica una profonda fedeltà all’immagine “dal vero”, al carattere fisiologico del soggetto inteso come irripetibile complessità fenomenica, alla sua unica ed impagabile dimensione, ed oltre a ciò, il desiderio di una individuale forza espressiva, risolta all’interno e fatta scaturire, liberamente, senza mediazioni.

Parrebbe quasi contraddittorio, ambiguo, irrisolvibile, un tale proponimento; che invece, perseguito con volontà e fiducia, diviene realtà nei suoi quadri, che ci offrono modi sempre nuovi di concepire il “vero”; ora fedeli ad esso e tecnicamente perfetti, ora più immediati e “getti d’impressioni”, giungono spesso ad una tale armonia fra questi diversi contenuti, coordinando le pieghe e le flessioni della forma con una elevata passione, da apparirci più completi, “oggetto” di sensazioni, pagina aperta sulla sensibilità di un pittore.

Il colore e l’ombra  si rincorrono nei volti di donna come nelle nature morte nell’ambito cromatico che traspare dietro un’insolita velatura, quasi distesa sulla tela: uno strato sottile, - quello del sogno o della poesia? – che si interpone  fra noi e la natura palpitante del quadro, a ridestare in noi la pacatezza, un magico abbandono alla contemplazione. Sembra però, dopo questo abbandono, che di là dalla tela, nel puro campo dei significati, qualcosa esponga e metta a nudo noi stessi, le nostre apparenze; quasi ritrovassimo nelle espressioni dei volti o nel disporsi degli oggetti, quel sorriso un giorno forse abbracciato, quel mistero triste letto in tanti sguardi, e pur la gioia, la calma serenità degli oggetti familiarmente posseduti; sono ritratti espressivi di un’umanità che non è solo del medesimo “oggetto di posa” , bensì della raccolta in più vasti valori sentimentali, sensibili a tutti, che sono stati o saranno un po’ di tutti; e questo ammiro in Leonardo Pizzanelli, la vera poesia, un umano racconto che diviene anche nostro, mentre lo percorriamo con quel po’ di devozione con cui si legge una pagina bella.

Cecilia Toschi

Presentazione al catalogo della personale alla Galleria d’Arte Guelfa, Firenze 1974

 

 

Figlio d’arte, Leonardo Pizzanelli aveva scarse possibilità di scelta e nella professione e nelle strade, anche se numerosissime, che questa generalmente offre e gli offriva realmente. I valori tradizionali della pittura, la tradizionale rappresentazione iconografica della figura e del paesaggio erano già elementi connaturati alla sua formazione; e pertanto hanno continuato a svilupparsi via via a seconda della evoluzione che Pizzanelli ha maturato nella sua intensa attività di pittore.

Non si può dire tuttavia che la scelta dell’artista non sia stata pienamente consapevole. Anzi, in questa evidente consapevolezza, Pizzanelli ha cercato di dare un determinato tono a quel suo linguaggio che risente, in un incontro logico e naturale, dell’amalgama della pittura veneta settecentesca e di quella francese degli impressionisti. Sempre sul filo di una tradizione dunque, anche se riscoperta alla luce dei tempi relativamente moderni. Ci vien fatto di crederci se tutto questo faccia di Pizzanelli un epigono o semplicemente un libero pensatore nell’arte, quest’arte che tante volte vede protagonisti e comprimari nella picca di far del moderno sulla scia di già clamorose riscoperte di tesori dissotterrati dopo secoli di silenzio o di morte.

Io penso che Pizzanelli malgrado gli scompensi umorali del suo linguaggio, sia un pittore libero; un vero pittore che si diverte, con grande proprietà tecnica, a poetare sulle tele indagando fra le generazioni passate di cui s’abbia tuttora conoscenza per tirarvi fuori solo quello che lo interessa; e per mostrarlo, questo suo interesse, alla contemporaneità, ancora sotto il velo del tempo che oggi continua a dare un’apprezzabile ambiguità ai personaggi dei suoi ritratti, alle vedute veneziane o parigine; immagini che affiorano come ricordi assillanti di lunghi soggiorni ai quasi si accompagnano la malinconia e il rammarico di situazioni irrimediabilmente passate e pertanto irrecuperabili.

In questo senso si può parlare di “velatura di sogno” nella pittura di Pizzanelli.

Tommaso Paloscia

Presentazione al catalogo della personale alla Galleria Il Navicello, Pisa 1975

 

 

 

Espone fino al 14, alla galleria “Il Navicello", diretta da Mimma Ghimenti, il pittore pisano Leonardo Pizzanelli. Formatosi in un ambiente tra i più eterogenei culturalmente (il sottobosco creativo è pieno di suggestione della Parigi post-bellica), il Pizzanelli ha assorbito le istanze estetiche più personali ed elaborato un tipo di pittura che, inserita nell’ambito di un figurativo eclettico, scopre e percorre con raffinata curiosità  tutte le gamme dell’acculturazione pittorica (dall’emotivo simbolismo alle vedute paesistiche immerse in un’atmosfera di ambigua decadenza, al critico verismo di certi ritratti).

Spesso la matrice e gli archetipi, sempre rielaborati in un  contesto di genuina “necessità”, sono individuabili (e, dunque, la “citazione” è tranquillamente dichiarata) come in Nicole, suggestivo ritratto in cui la notevole competenza tecnica approda ad una lirica decantazione delle forme cromatizzate, tramite l’uso sapiente della pennellata, stesa con gusto quasi impressionistico, o comunque compendiario, rispetto al nitore pignolo di Primavera (caricata di sottintesi simbolistici, nell’apparente  “nostralità”.

Altrove, invece, la funzione fondamentale è svolta alla luce, che irradia sommessamente la superficie dipinta ed esalta in giochi di corrispondenze tonali le forme, all’insegna di una visione armonicista in cui diventa fondamentale e positiva l’accademia: come in Bambina mascherata o in Bambino con violino, nei quali la pulitezza formale è lo specchio contrappunto doloroso: le forme infantili sono le protagoniste di una vita mancata, di un ingenuità che l’arte imita, ma che non sa riprodurre.

Da segnalare, infine, l’ottima prova di Venezia. La Salute, in cui l’ossequio al vedutismo è l’omaggio lontano e dimenticato: fondamentalmente diventa l’azione evocatrice della memoria, immersa in suggestioni cromatiche.

Andrea Aragosti

(Leonardo Pizzanelli, Pisa, La Nazione, 7 apr. 1977)

 

 

 

L’artista toscano Leonardo Pizzanelli, che espone una trentina di quadri alla Galleria Ror Volmar, nella Rue de Miromesnil, dipinge paesaggi (Parigi, Venezia, scorci di campagne francesi o fiorentine), ma le sue preferenze vanno chiaramente ai ritratti, alle figure di bambine o ragazzine appena entrate nell’adolescenza. Sono dipinti “innocenti” soltanto in apparenza. A guardarli bene ci si accorge che l’artista, per quanto le raffiguri sempre in atteggiamenti castissimi, è turbato da queste adolescenti seminude, che non sono ancora donne, ma che hanno già nello sguardo un che di ambiguo o di lascivo. E’ senza dubbio il mezzo che Pizzanelli ha trovato per “esorcizzare” i propri fantasmi, e vi è perfettamente riuscito perché finisce per comunicare anche allo spettatore il suo intimo turbamento.

Paolo Romani

(Pizzanelli a Parigi; in La Nazione, Firenze, 10 nov. 1978)

 

 

 

Sans doute l’essoufflement des recherches de valeurs plastiques pures à travers une abstraction devenue parfois froide et académique explique-t-il un regain d’intéret pour des artists éspris de perfection et de finesse toutes traditionnelles, Léonardo Pizzanelli appartient à cette garde fidèle d’artistes qui se veulent d’abord des artisans, parfaitement  maitres des techniques des anciens, Vénitiens et Impressionistes dans le cas present.

Et ce n’est pas à tort que l’on pourrait rapprocher la tentative solitaire de ce peintre florentin avec les recherches des préraphaélites anglais des années 1850. Ils partagent sur un plan formel ce meme souci du détail et du poli de la touché. Un accent est mis sur la lumiére dans les portraits de Pizzanelli qui, comme chez Hunt ou Rossetti, sont baignés d’une limpidité optique qui ignore totalement la présence de l’atmosphère. Cet effet de surexposition plonge les figures de Pizzanelli dans une immobilité de marbre qui confine parfois à l’Etrange. Tout comme les préraphaélites  d’ailleurs, il dispose d’une nature idéalisée et conventionnelle autour de fillettes et de garçonnets dont l’ingénuité émane et circule dans toute la toile.

Bien sur, cette fidélité presque maniaque à un vrai rendu dans ses moindres details, heurte de plein fouet un monde contemporain fait de conflits et d’agressions à la nature : de meme le préraphaélisme s’etait constitué contre l’industrialisme victorien, l’héroisme obstiné  de Pizzanelli consiste à nier toute l’évolution formelle de l’art depuis 1910-1920 ; et le pari est admirablement périlleux…

On se prend le temps d’un instant, à regretter que le peintre florentin n’ait pas mis sa grande maitrise technique au service d’une puissance de suggestion du portrait. Alors qu’un Rossetti tirait mystère et ésotérisme d’un Moyen Age  répresenté de façon parfaitement académique (cf. Le Salon champetre, 1872), Pizzanelli s’en tient à une quotidienneté que l’on perçoit dans sa mièvrerie, du fait de l’absence d’une réelle vie intérieure de la Nature comme des personages.

L’idéalisme de Pizzanelli est conventionnel : il n’évolue pas dans la reverie fantastique d’un age perdu. Ainsi la grande pureté formelle que l’on rencontre chez lui s’aplatit souvent au contact de situations anecdotiques, voire artificielles, des compositions. L’apport du Préraphaéllisme consistait dans un renouvellement des thèmes et des contenus. Ici, il y a une préciosité un peu vide qui ne debouche ni sur un quotidian dénonciateur, ni sur un “devoir-etre” mystique et enchanteur.

Poésie feutrée de l’intimité, diront certain. Peu-etre. En fait, la grande ambiguité de l’oeuvre de Pizzanelli vient de cet équilibre précaire entre un intimisme anecdotique et une formalisation idéaliste et puriste. Il se tient à la lisière d’une surréalité magique en limitant la copie du réel à un sentimentalisme sage et pacifié, partant un peu distant. Que les qualités plastiques viennent à manquer dans le tableau et le glissement dans l’ennui est assuré.

Aussi la sagesse de Pizzanelli ne l’a pas amené à marier les catégories du moderne et du beau. Paradoxalement, sa recherche de l’intemporel prive ses toiles d’une certaine universalité;  le traitement des couleurs, éteintes et submergées par une lumière diffuse, est en partie responsable de cette absence de vie.

Il appartiendra à l’avenir de dire si, au-delà d’une valeur de défi rétrograde, cette figuration peut receler quelques motifs d’admiration pour les générations nouvelles.

Laurent Roth

(Connessance des hommes n. 91, sept-oct 1981)

 

Il Preraffaellismo ritrovato

Senza dubbio lo sfiatamento delle ricerche dei valori plastici puri attraverso un’astrazione divenuta spesso fredda ed accademica, spiega il ritorno di interesse per quegli artisti invaghiti della perfezione  e della finezza tradizionali.

Leonardo Pizzanelli appartiene a questa guardia fedele di artisti che vogliono prima di tutto essere degli artigiani, perfettamente padroni delle tecniche degli antichi, in questo caso dei Veneziani e degli Impressionisti.

Non è senza ragione che si potrebbe accostare il tentativo solitario di questo pittore fiorentino alle ricerche dei Preraffaelliti inglesi degli anno 1850. Essi condividono su un piano formale la stessa attenzione al dettaglio e alla pulizia del tocco. Un accento è posto sulla luce nei ritratti di Pizzanelli che, come in Hunt o Rossetti, sono imbevuti d’un nitore ottico che ignora totalmente la presenza dell’atmosfera. Questo effetto di sovraesposizione immerge le figure di Pizzanelli  in un’immobilità marmorea al limite, spesso, dello straniamento. Proprio come i Preraffaelliti, egli dispone una natura idealizzata e convenzionale intorno alle giovinette e ai giovinetti la cui ingenuità si emana e circola in tutta la tela.

Certamente questa fedeltà quasi maniacale a un vero reso nei suoi più minuti dettagli, colpisce come una staffilata un mondo contemporaneo fatto di conflitti e di aggressioni alla natura: anche il preraffaellismo si era schierato contro l’industrializzazione vittoriana. L’eroismo ostinato di Pizzanelli consiste nel negare tutta l’evoluzione formale dell’arte dopo il 1910-20; e la scommessa è ammirevolmente pericolosa…

Ci si rammarica assai presto che il pittore fiorentino non abbia messo la sua grande maestria tecnica al servizio della forza di suggestione del ritratto. Allorché un Rossetti cavava mistero ed esoterismo da un Medio Evo rappresentato in modo perfettamente accademico (vedi le salon champetre, 1872), Pizzanelli si attiene ad una quotidianità  della quale si percepisce la melensaggine per l’assenza di una reale vita interiore della Natura come nei paesaggi. L’idealismo di Pizzanelli è convenzionale: non si evolve nel vagheggiamento fantastico in un’età perduta. Così la grande purezza formale che si trova in lui si appiattisce spesso al contatto con le situazioni aneddotiche; anzi artificiali, delle composizioni. L’apporto del Preraffaellismo consisteva in un rinnovamento dei temi e dei contenuti. Qui c’è una preziosità un po’ affrettata, che non sfocia né in una quotidianità sintomatica, né in un “dover essere” mitico e incantato.

Poesia ovattata dell’intimità, diranno certuni. Può darsi: Di fatto, la grande ambiguità dell’opera di Pizzanelli deriva da questo equilibrio precario tra un intimismo aneddotico e una resa formale idealista e purista. Egli si tiene al margine di una surrealità magica riducendo la riproduzione del reale a un sentimento saggio e pacificato, pertanto un po’ distante. Che le qualità plastiche e lo scivolamento nella noia vengano a mancare nel quadro, è assicurato.

Così la saggezza non ha portato Pizzanelli a coniugare le categorie del moderno e del bello. Paradossalmente la sua ricerca dell’intemporale priva le sue tele di una certa universalità; il trattamento dei colori, pervasi e sommersi da una luce diffusa, è in parte responsabile di questa assenza di vita. Sta al futuro dire se, al di là del valore di sfida anacronistica, questa figurazione può nascondere qualche motivo di ammirazione per le giovani generazioni.

Laurent Roth

(in: “Connaissance des hommes” n. 91, Bois-le Roi, sept-oct. 1981)

 

 

 

Caro Pizzanelli,

è per me un grandissimo piacere di ricevere il bel volume che Nicola Miceli ha dedicato alla tua densa attività artistica: esso mi riconduce direttamente ad anni lontani nel tempo anche se sensibilmente sempre presenti e nella memoria e nel cuore.. La tua pittura, ferma e pacata, è esposta in queste riproduzioni (assai belle tecnicamente) in maniera da fornire ampia testimonianza di un fervido culto della bellezza: ciò che maggiormente rivelano, a mio giudizio, il “Nudo disteso del 1981 e la “Modella con cappello piumato” del 1980: mi sembrano due alti raggiungimenti da porre accanto all’antico “Autoritratto” del 1939 che Miceli riproduce nella presentazione derivandolo da “radici tardo romantiche.

Ti sono sinceramente grato dell’invio. Con i miei auguri di ulteriore buon lavoro ti saluto molto affettuosamente. Il tuo

Fortunato Bellonzi

(Roma, Palazzo delle Esposizioni, 28 gen. 1981)

 

 

 

Non si può che lodare la scelta di dedicare una mostra esemplare a Ferruccio Pizzanelli e al di lui figlio Leonardo, pittori egualmente dotati di probità tecnica ed esprit de finesse, sicchè non s’avverte cesura o attrito generazionale nelle loro vicende, che pure hanno sostanzialmente occupato le opposte metà del nostro secolo.

L’esposizione fiorentina è oltremodo propizia. Lo è per una serie di motivi che la brevità di questa nota impedisce di illustrare. Tra gli altri, ricordo che essa ci offre l’opportunità di conoscere meglio due artisti pisani (ma Leonardo nacque a Torre del Lago nel 1920) di rara qualità, giustamente apprezzabili oggi che la contingenza epocale ha rilasciato il gusto per la pittura, e intendo quella che trova all’interno dei propri codici linguistici e della propria storia lo spunto e la materia per rinnovarsi. Per quanto riguarda Leonardo Pizzanelli, scomparso da non molti anni e prematuramente, essendo la sua giornata ancora feconda di opere e mirata all’affinamento vieppiù sensibile della forma pittorica, questa presenza fiorentina ha il sapore gradito del rientro da un viaggio, tanto è ancora viva la memoria dell’artista. Nel caso di Ferruccio, al contrario, si potrebbe parlare di una vera e propria riscoperta, essendo state sporadiche, dal secondo dopoguerra, le apparizioni delle sue opere nelle rassegne e nelle aste. L’omaggio fiorentino risulta poi tanto più apprezzabile in quanto permette di verificare i modi della continuità e, a suo tempo, della distinzione personale quali si evincono dalle opere di due artisti consanguinei per i quali non ha mai costituito un impaccio il rispetto dei principi formatori della moderna tradizione pittorica. Ferruccio Pizzanelli, capostipite della famiglia di artisti che annovera, oltre al figlio Leonardo, i nipoti Fabrizio e Lorenzo, si era formato all’Istituto d’Arte di Lucca e perfezionato all’accademia di Firenze, con Giovanni Fattori. Aveva quindi compiuto esperienze importanti con incontri e partecipazioni a Milano, Venezia, Torino, Pisa, la Versilia e Firenze, partecipe di una cultura artistica ad ampio spettro, dalle arti decorative (notabile la collaborazione con Galileo Chini) alla pittura tendenzialmente novecentista, declinata in una chiave elegiaca, incline alle soluzioni puriste e tonali piuttosto che impressioniste e sintetiche in senso plastico. Leonardo si era pure lui formato a Firenze, al magistero, oltre che presso il padre nella frequentazione familiare dello studio e del circolo degli artisti amici, tra  la Viareggio di Lorenzo Viani e Moses Levy e la Torre del Lago di Puccini e degli artisti del cosidetto “club della Bohème”, rappresentanti di un naturalismo venato di simbolismo. La sua visione pittorica era quindi maturata a Parigi, con la lettura diretta degli impressionisti, segnatamente Degas e Renoir, e con l’acquisizione di un vibrato luministico e cromatico che Pizzanelli sapeva modulare all’unisono con la propria sensibilità intimista, investendo sottilmente  delle proprie emozioni e umori e malinconie le figure, i paesaggi, gli oggetti su cui lo sguardo si soffermava attento e ammaliato.

I dipinti e i disegni di Ferrucio e Leonardo Pizzanelli, pur nella brevità di una mostra che non vuol ricostruire l’articolazione e lo sviluppo attraverso la prima e la seconda metà del nostro secolo, sono opere d’arte che attestano la serietà e l’autenticità creativa di due artisti i quali hanno saputo cogliere dalla natura le occasioni ispiratrici, attingendo alla sapienza tecnica e alla proprietà stilistica le qualità necessarie a permutarle in segni e figure di poetica risonanza interiore.

Nicola Micieli

Presentazione al catalogo della mostra alla Galleria Lucia Burgassi, Firenze, 1998.

 

 

 

Alla precoce vocazione pittorica di Leonardo Pizzanelli ha certo concorso la circostanza d’essere nato da padre pittore e di aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una geografia litoranea, tra Viareggio e Pisa, che seppe esprimere una propria identità culturale sbirciando oltr’Alpe piuttosto che alla epigona scuola livornese tardo-macchiaiola o alla Firenze post vociana dei Rosai e dei Soffici.

Dal padre –il fine pittore pisano Ferruccio Pizzanelli – fu il giovanissimo Leonardo iniziato al fervido mondo artistico trascorrente tra la Pisa di Spartaco Carlini e Umberto Vittorini, più che all’appartato Giuseppe Viviani, e la Viareggio di Lorenzo Viani e Moses Levy, e che si dispiega da un espressionismo ora grottesco ora visionario a un pittoricismo più corsivo, disponibile alla brevità e alla arditezza di tagli e notazioni cromatiche, tuttavia conservando, nella maniera di impostare l’immagine, un che di lingua toscana: la sostanziale concretezza dell’impianto compositivo che lascia indovinare l’impianto architettonico dello spazio. Caratteristica, questa, che direi connaturata a un Toscano, ma spiccata in Ferruccio Pizzanelli, e ancor più nel figliolo Leonardo; il quale mostrava di possedere  spirito d’osservazione e sensibilità, e una disposizione al disegno da secondare.

Della stagione culturale versiliese, che si consumava tra le spiagge assolate e i caffè culminando nel premio letterario “Viareggio” (fondato nel ’29 da Leonida Rapaci) Leonardo Pizzanelli visse uno scorcio, fino agli anni della guerra. Ne partecipò il clima se non le vicende, e non solo per l’età: dall’osservatorio della spiaggia o delle sedute di studio egli difatti traeva occasioni di educazione visiva ed elaborazione degli strumenti stessi della pittura. La disciplina e castigatezza dei modi rivelava un animo riflessivo e poetico, incline a stabilire con la realtà rapporti non precari o evidenti, e soprattutto di non superficiale incidenza sentimentale.

Al giovane pittore non sarebbero certo mancati i modelli artistici, oltre al padre. La Versilia, ove operavano nella cosiddetta “scuola di Motrone” i pittori Funi e Consolo, l’architetto  Muzio e lo scultore Rambelli, ospitava o aveva ospitato più o meno stabilmente alcuni tra i più bei nomi della pittura italiana, da Carrà a Soffici, De Grada, Vagnetti, Carena, Maccari.

Ma tali esempi, nonché indurlo a superficiali adesioni o infatuazioni lo confermavano nel pensiero latente che l’arte, al di là della situazione contingente della forma, è un misurarsi continuo con la realtà interiore ed esterna, un discoprirne i misteri, come dire gli intimi nessi da tradurre in immagine evocativa; e che per l’arte occorresse stabilire un chiaro rapporto con il passato, nel senso dei linguaggi e delle tecniche, componenti riconducibili all’unità della visione iconografica cosiddetta figurativa.

Già in quegli anni formativi Pizzanelli aveva precisato il senso della sua vocazione al dipingere nell’ambito dei valori della grande tradizione, da assumere con umana disponibilità al racconto del vivere quotidiano in sincerità di apertura affettiva. E non si dimentichi che negli anni Trenta l’appello al recupero della tradizione, lanciato da “Valori plastici” aveva pur creato un gusto per la pittura corposa e monumentale, non priva di eloquenza e particolarmente adatta, negli esempi peggiori, alla celebrazione retorica dei correnti imperativi politici.

La sensibilità di Pizzanelli si profilava, al contrario, delicata e trepida, di radice tardoromantica, e la si può cogliere dell’autoritratto del ’39, in carboncino che par realizzare i tratti somatici d’un eroe fogazzariano, creatura in intensa spiritualità nella struttura esile e affusolata del volto. Al proponimento di un’arte di solido impianto plastico e di sintesi volumetrica, Pizzanelli preferiva i trapassi tonali graduali e armonici del tessuto pittorico, le atmosfere calde e soffuse al limite dell’idealizzazione; ciò che faceva scattare a un diverso grado di significazione un repertorio per altro verso tipico tanto da apparire scontato, come il paesaggio, la composizione di figura e la natura morta. Pizzanelli manterrà praticamente intatta tale peculiarità nel corso del quarantennio a seguire di lavoro sempre più affinato, nel quale introduce minimi scarti stilistici, quali conseguenti segni di evoluzione e maturazione culturale di ampliamento e differenziazione del linguaggio in rapporto alle specifiche assimilazioni storiche e contemporanee. Le quali non mancano, e sono anzi nutrite, ma non facilmente individuabili, come accade in chi considera lo stile non una cifra iconografica a tiratura illimitata, ma il prodotto di una ricerca personale che si sviluppa entro il continuum storico-culturale, da dove attinge i contenuti della propria autenticità.

Sicché il ventaglio delle esperienze formative si indovina ben più ampio dell’ “amalgama della pittura veneta settecentesca e di quella francese degli impressionisti” di cui scriveva giustamente Tommaso Paloscia, potendosi reperire più sotterranee vene e minute diramazioni di tutta un’area pittorica che al purovisibilismo naturalistico, defluito nell’impressionismo, sostituisce e variamente declina un’intenzione pur letteraria di significazione, dalla pittura lombarda dei Renzoni e Cremona ai Preraffaelliti, al Segantini simbolista. E non occorre precisare che le corrispondenze sono tutt’altro che iconografiche.

Il quadro formativo si completa tuttavia durante e dopo gli studi al Magistero artistico di Firenze, quando il giovane pittore approfondisce la conoscenza dei classici, specie nel campo della figura, da Raffaello a Tiziano a Silvestro Lega, non già nell’improponibile velleità di eguagliarne gli esiti, ma nell’ottica di un’analisi consapevole dei linguaggi, funzionale sia alla conoscenza specifica delle personalità artistiche sia all’acquisizione delle tecniche, che sono di per sé veicoli di significato. L’esercizio sulla figura risulterà poi finalizzato all’arte del ritratto, da Pizzanelli sin dagli anni fiorentini concepito non certo come genere di mera riproduzione fisiognomica ma come luogo tout court d’espressione poetica. E a proposito di ritratti, va da sé che Pizzanelli vi fissi le sue notazioni psicologiche relative alla personalità e “al carattere fisiologico del soggetto inteso come irripetibile complessità fenomenica, alla sua unica e impagabile dimensione” (Cecilia Toschi).

Ma direi che essi rappresentano soprattutto un’occasione proiettiva, sull’entità di carne e spirito che è il modello, di una carica emotiva tutta interiore all’artista, che alla verità dell’essere umano si accosta per esprimere sue segrete tensioni, intraducibili altro che nel linguaggio delle forme intessute di grazia e compostezza: un mistero di comunicazione intuitivamente accessibile attraverso lo sguardo pensoso di un bimbo o la velatura dorata che si stende sull’immagine, quasi a stemperare la materialità del colore e spostare la stessa forma a una dimensione di tempo che non è reale.

Io non so quanti pittori mai sappiano dipingere ritratti così assorti e intensi. Certamente non molti vi si accingevano nei primi anni Quaranta a Firenze, se si esclude qualche allievo dell’accademia di Carena, gli Annigoni e i Colacicchi. E ciò depone a conferma delle non facili scelte operate da Pizzanelli, nel senso di un’arte votata all’inattualità perché commisurata a tempi operativi e processi mentali di più lento respiro che non i ritmi delle mode culturali, e perché di difficile raggiungimento sul piano dello stesso mestiere.

In effetti, Pizzanelli ha elaborato una tecnica raffinata, mai esibita in virtuosismi accademici, anzi oculatamente decantata al filtro umorale della sensibilità poetica e del gusto estetico. Qualità, queste, cui si deve il senso liminare di equilibrio intuibile nelle opere qui documentate, per la modulazione plastica del tessuto, costruito con un serrato ma non triturante gioco di pennellate, e la levità d’aria in cui par materializzarsi la forma, quasi un’evanescente, impalpabile apparizione.

A creare in queste opere il clima di sogno cui parla Cecilia Toschi, indubbiamente concorre l’effetto fascinoso d’una luce diffusa e pulviscolare, morbido velo che imbeve l’immagine più che scaturire da una fonte esterna, o dall’interno come qualità intrinseca del pigmento, ché il colore è quanto mai calibrato nella gamma più delicata dei mezzi toni, e inclina alla morbidezza sfarinante del pastello, stabilendo atmosfere diffuse ora bruno-dorate ora madreperlacee ora grigio-rosate e di candore carnicino. Per tale qualità lirica della luce e del colore, direi che siano da considerarsi superficiali le più volte   rilevate analogie con l’impressionismo, la cui logica ottica nell’uso della luce mal corrisponde alla funzione psicologica che svolge in Pizzanelli.

L’incontro con la grande arte impressionista non fu tuttavia privo di importanza. Avvenne nel ’54, con il primo viaggio a Parigi, quando l’artista aveva affermato la sua identità di pittore e si era imposto come ritrattista e paesaggista, partecipando a importanti esposizioni, quali la mostra “50 anni di pittura toscana “ a Palazzo Strozzi o le varie Provinciali fiorentine, di un’edizione delle quali (1946) un suo Nudo fu acquistato dalla Galleria d’arte Moderna di Firenze.

Certo l’artista toscano non poteva prediligere, degli impressionisti, il vedutismo alla Sisley o alla Monet di La regate à Argenteuil, per quel fremito cromatico di pennellate a tocco atomizzanti l’immagine, che introduce una nuova concezione dello spazio pittorico, ciò che implica l’abbandono della forma come costruzione plastico-cromatica articolata secondo l’antica logica del disegno, sia pure non inteso in senso rigorosamente rinascimentale.

Fu importante, piuttosto, la lezione di Degas e Renoir, la cui influenza ha lasciato depositi anche iconografici. Ma soprattutto incisero Vuillard e Bonnard, esponenti di una stagione tarda e in procinto di sfociare ad esiti simbolisti per l’intimismo della visione d’interno, per le figure come ovattate nel pulviscolo del colore-luce, nelle quali Pizzanelli riconosceva un segno della propria sensibilità raffinata fin quasi all’estenuazione del colore quanto della linea.

Nascono quindi dipinti e disegni di figura fluenti in sinuosità da gotico o da orientale, in stilizzazione pressoché da arabesco; ma anche complessioni corporee di più largo impianto, dove il segno si sfalda e sovrabbonda, in un inusitato barocchismo. E si vedano i dipinti eseguiti intorno agli anni Sessanta e soprattutto i disegni qui riprodotti, composizioni su soggetto muliebre, bimbi con animali e giocattoli: A tale esuberanza si alterna, verso gli anni Settanta, un segno più incisivo (che rammemora Ingres nel nitore con cui scandisce volumi compatti e levigati come d’avorio), quasi a ribadire  nel diverso momento stilistico la libertà dell’artista anche nei confronti della propria cifra espressiva.

La biografia di Leonardo Pizzanelli non è ricca di date e avvenimenti, e la si potrebbe definire un ininterrotto impegno pittorico. La sua non può dirsi una di quelle esistenze vissute entro il recinto della provincia, estranea agli itinerari internazionali della cultura. Tuttavia, sostanzialmente appartata appare l’opera, quasi una meditazione silenziosa e discreta sulla grande pittura, su un’arte non più proponibile come modello cosmologico splendidamente trionfale (però neanche mistificabile nel pompierismo trionfalistico) semmai rivisitabile con nostalgia come un’isola lontana dalla memoria, da approdarci in intimo raccoglimento.

Mi pare che possa questa essere una chiave per capire l’opera di Pizzanelli e collocarla nel nostro tempo così diversamente segnato, percorso e ripercorso da sperimentalismi che hanno certo dischiuso nuove dimensioni della visualità, ma consentendo la dissipazione nell’effimero.  Nella sua dimensione intimista Pizzanelli consuma in sotterranea combustione turgori e brividi nei sensi come nella mente, dilatando il privato in mito attraverso la celebrazione del rituale pittorico, sublimando l’immagine quel tanto che serve a trasformarla in visione, prodotto dell’immaginazione intellettuale, distillazione mentale e psicologica, simbolo iconografico dell’animo umano.

Non è causale, tra gli altri, il riferimento a Vuillard e Bonnard, alle epifanie sontuose della luce sui corpi quasi sfaldati negli interni delle stanze, o recinti iniziatici e isole di misteri e apparizioni, pedali per itinerari  che dalla topografia domestica conducono alle regioni del sogno; e si noti come in Pizzanelli non manchi una vena d’esotismo molto indiretto, in quei nudi sdraiati con sullo sfondo il rabesco della tappezzeria, che par commentare nelle sue volute la stilizzazione dei corpi adolescenziali ancora integri di bellezza inattingibile.

Pizzanelli è sempre pittore d’interni psicologici, anche quando dipinge figure-ritratto poeticamente gravitanti nell’area delle pure presenze pittoriche, da entrarci in sintonia e sensibilità; o quando compone ineffabili palpitazioni di fiori dalla materia variegata in impasti lievissimi e totalmente decantati o in vellutati spessori pellicolari.

Di interno psicologico occorre parlare anche in senso spaziale, sia quando l’ambientazione delle figure tra le pareti della stanza delimita un’area avvolgente come la seta di un astuccio, sia quando lo sfondo si apre all’esterno, come una finestra che guarda al paesaggio. In questi interni/esterni mi pare si conformi l’intenzione simbolica di cui discorrevo, giacché non di natura “naturale” – magari colta con l’occhio “impressionista” – si tratta, ma di estensione all’ambiente d’una pulsione sentimentale già leggibile nel breve giro d’occhi incantati delle fanciulle: ciò che rappresenta, a ben vedere, un residuo romantico. In questo senso credo vadano lette ancora alcune ambientazioni di figure in esterno, come la Primavera del ’76 seduta su un muricciolo in campo d’alberi fioriti, la cui ambrata presenza ha un che di familiare e di assorto. Impressione che si rinnova, ma in diversi termini stilistici, nella Bimba con gatto del ’79, nitidamente stagliata sull’azzurro-grigio del paesaggio innevato, da dove un contrasto attinge valore icastici il colore rosso del cappottino e forza magica l’immagine imprevista.

Il paesaggio è insomma un luogo protettivo ed evocatore di misteri e di incanti o un pretesto per garbate affabulazioni, per colloqui con l’amorevole partecipazione del fanciullo. Allora in un paesaggio francese o inglese non respiri un clima o un colore locale, ma una suggestione di luce che trascolora acque e cieli, alberi e case, configurandosi in tonalità narrative ed elegiache nelle vedute di Londra (1960) e di Parigi (1959) o d’una Venezia (1965) sontuosa in cui appare filtrata la tradizione dei Guardi più che dei Canaletto.

Dove si guardi dunque alla sostanziale omogeneità pittorica e poetica che lega i paesaggi, figure e nature morte, e alla continuità che, nei naturali e tuttavia impercettibili scarti evolutivi, presiede all’opera intera di Pizzanelli, si avrà l’immagine di un artista che ha proseguito e persegue un ideale non effimero d’arte. E’ proprio la consapevolezza dell’impossibilità contemporanea a esprimere valori durevoli che rende la pittura di Pizzanelli uno specchio velato di malinconia, una meditazione estetica sulla condizione provvisoria della vita come della bellezza, dei sensi come del pensiero: contenuti come si vede, decadenti, ma ancor oggi di una inesaurita validità, che presiedono al clima ambiguo e un po’ estenuato di cui sono immerse le fanciulle, creature in bilico di età e di condizione corporea.

L’adolescenza, età presente alla pienezza vitale del corpo in boccio, alla acerbità fragrante del frutto intatto, dell’inflorescenza non ancora esplodente di aromi, è tema per eccellenza di Leonardo Pizzanelli. Tema emblematico perché simbolo di bellezza inconsapevole di disfacimenti e impossibilità, su cui si esercita il desiderio dell’artista che ne sublima l’incanto per non doverne attingere gli umori e corromperne l’integrità: Per non dover ammettere che a conoscerla, la vita, e la bellezza, a possederla con malizia la si ottenebra, le si distrugge l’aurea sacrale che la circonda: si rivela come finzione o sogno di poeta.

E d’un poeta ritornano a mente i versi, del Cardarelli appunto di Adolescente: mito della bellezza quale stato di grazia (“su di te, vergine adolescente / sta come un’ombra sacra”), condizione dell’esser fuori di cognizione, in aurorale sospensione, sino a che il “sudore dei contatti”, la presa del possesso umano non dissolva la porpora smagliante delle sue ali di farfalla. Vincenzo Cardarelli concludeva:

Pure qualcuno di disfiorerà, /bocca di sorgiva./ (…)/ Tu ti darai, tu ti perderai,/ per il capriccio che non indovina/ mai, col primo che ti piacerà./ Ama il tempo lo scherzo / che lo seconda, / non il cauto volere che indugia./ Così la fanciullezza/ fa ruzzolare il mondo/ e il saggio non è che un fanciullo / che si duole di essere cresciuto.

Il testo che precede lo scrissi nel 1981, venticinque anni fa, per la monografia di Leonardo Pizzanelli pubblicata lo stesso anno dall’editore Giorgi e Gambi di Firenze, della quale uscì un’edizione francese a tiratura limitata con un testo di Robert Vrinat, che ripropongo in queste pagine nella traduzione di Silvana Lonardi Pizzanelli. Il contributo del critico francese mi sembra difatti molto puntuale e utile ai fini della conoscenza del modo di Pizzanelli, per l’attenta analisi che vi si conduce del suo linguaggio pittorico, oltre che per le considerazioni circa le analogie e le distinzioni rispetto alla congerie impressionista e alla cultura francese, per Pizzanelli importanti al pari dell’arte del primo Novecento e di quella classica, segnatamente toscana e veneta, dal Rinascimento al Settecento.

Quanto al mio saggio, che all’artista a suo tempo non dispiacque, rileggendolo dopo un quarto di secolo mi è parso conforme a quel che scriverei ancora oggi. Lo ripropongo dunque senza integrazioni o modifiche, dovendo introdurre un notevole corpus di dipinti e disegni distribuiti lungo il percorso intero dell’artista, più numerosi di quelli che potei visionare allora, quando Pizzanelli mi mostrò il suo lavoro nella casa e studio di via Torcicoda, a Firenze. Del resto, nell’arco temporale, purtroppo assai breve, di vita operosa che ancora gli restava da quel 1981 del nostro incontro, Pizzanelli non doveva introdurre sostanziali cambiamenti nella sua pittura. Né avrebbe potuto, mi permetto di aggiungere, se durante mezzo secolo di magistero paziente e fervido, esercitato dacché esordì precocemente in Versilia, si può affermare che egli non abbia deviato dall’ideale pittorico di bellezza soffusa e di trepida adesione sentimentale già enucleato in gioventù e presto precisamente delineato. Nel seguito di decenni egli non ha sondato e sviscerato che le possibili variazioni formali di quella originaria concezione, rivelando nel lungo periodo un’inesauribile capacità di rigenerare con sempre nuove soluzioni la tensione espressiva, invero mai dismisurata, del proprio mondo poetico. Che è poi un ispirato fraseggio di incontri, intese, complicità dei sensi e dell’intelletto con cose e creature della quotidianità cari a Pizzanelli, accadimenti intimi collocati nei luoghi fisici e simbolici in cui egli identifica i propri ambiti privilegiati, quelli che segnano e connotano la sua appartenenza di uomo e artista.

Le opere qui documentate compongono la seconda e più ampia mostra retrospettiva sin qui dedicata all’artista, che ha tenuto mostre personali e partecipato a rassegne in Italia e in numerosi altri Paesi, ma sempre con discrezione, come gli dettavano la sua filosofia e stile di vita. E’ motivo di compiacimento, per gli Archivi Artistici del ‘900 a Pisa, aver potuto organizzare questo omaggio, occasione per conoscere meglio e, forse, riscoprire un artista che a Pisa – la sua città -, se pur il destino lo aveva fatto nascere a Torre del Lago –non trascorse che tratti della sua esistenza, essendo vissuto a Firenze e per lunghi periodi all’estero. Ciò nonostante, Leonardo Pizzanelli è stato ed è da considerarsi pisano a pieno titolo, perché di famiglia e di consuetudini pisane: suo padre Ferruccio Pizzanelli considerato tra i maggiori pittori pisani del primo Novecento, in vario modo partecipe e animatore dei più interessanti movimenti di quella stagione culturale.

I dipinti e disegni di questa retrospettiva provengono dalla collezione privata dell’artista. Non si tratta dunque di resti, ma di opere accantonate, molto rappresentative, e vorrei dire “selezionate”, per quanto questo termine sia alquanto improprio, per lo meno significativo nel caso d’un artista che operava con una proprietà tecnica e una probità formale ineccepibili, non concedendosi stravaganze o diversioni “sperimentali” (ancora un aggettivo inadatto al suo abito mentale di pittore colto e raffinato) che comportassero azzardi linguistici e, di conseguenza, possibili cadute di stile, invero egli era così sorvegliato e professionale nell’ideazione ed esecuzione del disegno e del dipinto, qualsiasi fosse il genere trattato (paesaggio veduta, natura morta, ritratto, composizione con figura in interno  o in esterno), da escludere a priori ogni approssimazione.

In questo senso, oltre che per le intrinseche qualità, sono documenti di grande interesse i numerosi bozzetti preparatori presenti in questa retrospettiva e i piccoli dipinti in genere, che per le loro ridotte dimensioni, non essendo miniature, presupporrebbero  un’esecuzione più sommaria e abbreviata. Invece sono condotti con oculatezza tecnica e la compiutezza formale delle opere di ben altra estensione e respiro, a prescindere dalla tessitura pittorica diversamente rada o serrata, dal grado di condensazione della forma nitidamente delineata o suggerita con poche pastose pennellate, dalla definizione visiva vaga o focalizzata dell’immagine.

I numerosi disegni che affiancano e integrano i dipinti, in un rapporto di contiguità rilevabile anche sul piano dei soggetti, disegni che spesso si configurano come momenti preparatori dei dipinti, e non solo nel caso degli studi di prammatica per i ritratti, dichiarando la sostanziale matrice costruttiva, italiana e toscana del linguaggio pittorico di Pizzanelli, per il quale non si dava forma, per quanto aperta che fosse e caratterizzata da aerei tocchi di materia/colore, che non sottendesse un telaio, un impianto, un’architettura. Il disegno, anche nelle sue applicazioni litografiche e incisorie che costituiscono il trait d’union con la pittura, e non mancano gli esempi nella mostra, rimane il fondamento dell’arte di Pizzanelli, giocando il colore - mai esorbitante o gridato nella purezza dei suoi valori, anzi modulato in sapiente registrazione tonale – una funzione squisitamente evocativa. Il colore è dunque concepito come la componente formale cui spetta di attrarre e assorbire lo sguardo, rendendolo intimamente partecipe del sommesso fervore che anima e rende presenze poetiche le creature e gli oggetti incontrati sulla scena.

Nicola Micieli

dal catalogo della retrospettiva: “Leonardo Pizzanelli (1920-1984)” a cura degli Archivi Storici del ‘900 a Pisa. Galleria d’Arte Simone Vallerini, Pisa 2006

Cataloghi

1962 – “5 riproduzioni d’arte cm. 27x33 della collezione pittori contemporanei F.lli Alinari” pag. 154 dal catalogo “Pitture  di Venti Secoli” editori Fratelli Alinari S.p.A, Firenze.

1981 - “Leonardo Pizzanelli” Testo e cura editoriale di Nicola Micieli, Giorgi e Gambi Editori Nell’edizione francese il testo è di Robert Vrinat.

2006 - “Leonardo Pizzanelli – Retrospettiva Disegni Dipinti Litografie” testo e cura editoriale di Nicola Micieli, Galleria Simone Vallerini, Pisa. Stampa Bandecchi e Vivaldi.

2009 - “Omaggio a Leonardo Pizzanelli- Quaderno n° 1”. Firenze Marzo-Aprile, Antichità Via dei Fossi.